domenica 15 febbraio 2015

Arte, finanza, politica..dal medioevo ad oggi il genio italiano in Francia (1a parte)




Già nel Basso Medioevo, gli italiani erano conosciuti in Francia anzitutto come banchieri, provenienti dal Piemonte

A partire dal 1100 questi banchieri detti, come si usava nel medioevo per indicare gli abitanti del nord Italia, "lombardi" si diffusero in Francia.

Verso la metà del secolo XIII, dei banchieri lombardi andarono a stabilirsi a Cahors intorno a una piazza, che allora si chiamava la piazza del Cambio
Il più importante e conosciuto dei banchieri lombardi fu Aguinolfo degli Arcelli.


Aguinolfo, originario di Piacenza, il cui nome francesizzato suona Gandoulfe d'Arcelles, era nel 1300 il lombardo più ricco di Parigi.

Dai documenti rimasti risulta ch'egli abitava in via Saint-Merri (IV arrondissement di Parigi) e che pagava la taille più elevata rispetto a quella pagata dagli altri Lombardi. 


Il suo prestigio era enorme se si considera la clientela della sua banca, i personaggi che entravano in relazione d'affari con lui e le somme di denaro che Gandoulfe prestava alle città di Dreux, Rouen, Poissy e Pontoise.

Con l'epoca rinascimentale, cominciarono a giungere in Francia, come nel resto d'Europa, artisti e intellettuali italiani, un'immigrazione che si potrebbe definire "d'élite" e perlopiù temporanea. 


Tra i primi a stabilirsi in Francia troviamo Leonardo da Vinci, che vi trascorse gli ultimi anni della sua vita, dal 1516 al 1519. 

Nel corso del XVI secolo, un gruppo di artisti italiani formò quello che sarebbe stata chiamata la Scuola di Fontainebleau, allorche' l'allora re di Francia Francesco I ordinò nel 1528 il rifacimento e i lavori di decoro del castello.


                                                                                           Scultura di Benvenuto Cellini

Il gruppo degli italiani comprendeva Rosso Fiorentino, Francesco Primaticcio, Nicolò dell'Abate, Benvenuto Cellini, Sebastiano Serlio, e Jacopo Barozzi da Vignola.

Dal 1642 fino alla sua morte nel 1661, il cardinale italiano Giulio Mazzarino fu il primo ministro della Francia.


Compositori e cantanti italiani furono invitati a corte durante il suo mandato, tra cui i compositori Luigi Rossi, Carlo Caproli e Francesco Cavalli, il cantante lirico Atto Melani, e molti altri. 
Anche Giovanni Battista Lulli giunse in Francia ancora ragazzo nel 1646 e nel 1650 era già noto a corte come ballerino e compositore. 
Dopo la morte di Mazzarino, Lulli guidò la nuova tendenza verso la creazione di un'opera in stile francese coadiuvato dallo scenografo Carlo Vigarani.

Nel 1669, l'astronomo italiano Giovanni Domenico Cassini divenne il direttore dell'Osservatorio di Parigi, fino alla sua morte nel 1712.

Nel 1761-93 Carlo Goldoni fu responsabile del Theatre Italien a Parigi
I compositori Niccolò Piccinni e Antonio Sacchini furono attivi in Francia durante quegli anni.

Il successo della Rivoluzione francese e l'epoca napoleonica attrassero in Francia numerosi italiani che vi giunsero con il desiderio di condividere le nuove idee o come rifugiati politici.

Per tutto il periodo del Risorgimento, la Francia restera' meta accogliente per i patrioti italiani. Tra di essi troviamo militari, come Andrea Massena e Francesco Zola, ed intellettuali come l'archeologo Ennio Quirino Visconti (che nel 1799 divenne curatore delle antichità del Louvre e nel 1803 docente di Archeologia presso l'Institut de France), lo scienziato Carlo Lauberg, il giurista Luigi Emanuele Corvetto, lo storico Carlo Botta, il matematico Annibale Giordano, il patriota Daniele Manin, e molti altri.


Nella prima metà dell'Ottocento, molti illustri compositori italiani hanno lavorato a Parigi, da Luigi Cherubini, a Gaspare Spontini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti.




Su tutti si impone la presenza di Gioachino Rossini, che fu anche direttore del Théâtre des Italiens. 


Anche Giuseppe Verdi trascorse lungo tempo a Parigi.
 

È a partire dalla metà dell'Ottocento che l'immigrazione italiana in Francia comincio' ad assumere le caratteristiche di fenomeno di massa. 
Secondo un censimento sulle comunità straniere residenti effettuato nel 1851 dalle autorità francesi, vi risultò che dei circa 380.000 stranieri residenti, 63.000 erano italiani (in primo luogo piemontesi). 
Il numero degli italiani residenti in Francia crebbe rapidamente per tutto il XIX secolo, arrivando a quota 163.000 nel 1876 e 240.000 nel 1881.

Comincia per la prima volta ad affermarsi anche la generazione dei figli degli immigranti, capace di produrre personalità come Émile Zola, Luigi Visconti, Paul Émile Botta, Léon Gambetta, e altri.
 

                                                                   Leon Gambetta

Alla fine dell’Ottocento l'immigrazione italiana in Francia conobbe una momentanea contrazione dei propri flussi.

Causa principale di ciò, furono il calo congiunturale che caratterizzò l'economia francese in quel periodo e i cattivi rapporti diplomatici tra i due paesi creatisi all'epoca per la questione tunisina. 

Tale crisi diplomatica fu alimentata ulteriormente con l'ingresso dell'Italia nella Triplice Alleanza avvenuta nel 1882. 
All'inizio del 900 l'emigrazione italiana riprese comunque la sua linea ascendente e la comunità italiana divenne la prima comunità straniera residente nel paese, contando quasi 500.000 unità nel 1911.
Fino alla vigilia della prima guerra mondiale, l'emigrazione italiana in Francia fu prevalentemente di tipo economico. 

Nel paese vi era infatti una grossa carenza di manodopera interna, in modo particolare nei settori agricolo, industriale (fabbriche e miniere) ed edile. 

Le richieste francesi di manodopera italiana, crebbero alla fine del primo conflitto mondiale, dove la Francia, malgrado fu una delle potenze vincitrici della guerra, subì enormi contraccolpi non solo da un punto di vista economico, ma soprattutto demografico con la perdita di circa 2 milioni di soldati, tutti in età riproduttiva. 
Questa situazione indebolì ancor di più la già debole demografia francese, per cui l'immigrazione italiana, ma in generale quella straniera, servì anche a colmare questa grave carenza.


La vibrante cultura francese continuo' ad attrarre dall'Italia artisti come Amedeo Modigliani e Gino Severini e letterati come Giuseppe Ungaretti.


Con l'avvento del Fascismo in Italia, all'emigrazione di tipo economico si aggiunse anche quella di tipo politico. 
Nel corso degli anni venti molti furono i politici italiani di vari orientamenti avversi al regime di Mussolini che furono costretti a rifugiarsi in Francia, come Eugenio Chiesa, Filippo Turati, Gaetano Salvemini, i Fratelli Rosselli, Giuseppe Saragat, Pietro Nenni, Sandro Pertini e molti altri. 

Ma parallelamente nella comunità italiana di Francia, vi furono anche dei simpatizzanti del regime fascista, anche se non molto numerosi, visto che la sezione francese del PNF nel 1938 contò appena 3.000 iscritti, e questi inoltre erano rappresentati da Nicola Bonservizi responsabile del partito in Francia, che fu assassinato da un esule italiano anarchico nel 1924.
Tuttavia, la collettività italiana in Francia nel 1931 arrivò a superare gli 800.000 residenti, e successivamente i flussi si interruppero con lo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Al termine della seconda guerra mondiale, i flussi migratori dall'Italia ripresero nuovamente, ma furono molto meno intensi rispetto a quelli registrati tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX. 
A partire dagli anni quaranta si assistette alla contrazione del numero di italiani residenti, dovuto alle massicce naturalizzazioni e al crescente numero di rimpatri. 

Nel 1946, infatti, si ridussero a 450.000, che divennero 570.000 nel 1968, per poi calare nuovamente ai 460.000 del 1975 fino ai 350.000 del 1981.

Nel corso dei decenni il fenomeno dell'immigrazione italiana in Francia tese quindi a esaurirsi e contemporaneamente mutò fisionomia. 

Se agli inizi del Novecento era un'immigrazione costituita perlopiù da contadini, minatori e operai, a partire dagli anni del boom economico, cominciarono ad affluire lavoratori più qualificati. 

Inoltre molti degli italiani già residenti nel paese si videro elevarsi socialmente, divenendo liberi professionisti, commercianti e imprenditori, questi ultimi, operarono molto nel settore della ristorazione.

Tutto ciò è il risultato di una integrazione degli immigrati italiani nella società francese, che nel corso di tanti decenni, seppur con molte difficoltà, ai giorni nostri può definirsi riuscita.


martedì 10 febbraio 2015

Martin Weill, le jeune journaliste de Canal Plus

 
 
Martin Weill, envoyé spécial pour Le Petit Journal de Yann Barthès diffusé du lundi au vendredi à 20h05 en clair sur Canal+ . Il se rend chaque semaine dans une nouvelle ville : un plongeon au coeur de l'actu !

Martin Weill, Journaliste-Reporter pour Le Petit Journal de Yann Barthès diffusé du lundi au vendredi à 20h05 sur en clair Canal+



Né à Paris le 11 avril 1987, Martin Weill est un jeune journaliste français. 
Après avoir fait des études à Science Po Bordeaux et à l'université de Cardiff (Pays de Galles), Martin Weill est sorti diplômé de l'Ecole Supérieur de Journalisme de Lille.

Le jeune homme, âgée de 27 ans, a débuté sa carrière chez TF1 avec des reportages pour les JT de 13H et 20H , puis en septembre 2012 il intègre l’équipe du "Supplément" présenté par Maïtena Biraben en tant que reporter .

Le 26 août 2013 il rejoint LE PETIT JOURNAL de Yann Barthès dans lequel il est « l’envoyé spécial ». 
Chaque semaine il se rend dans une ville du monde, au cœur de l’actualité. 
Pour sa première télévision, Martin Weill était en reportage au Mali, mais il s'est également rendu à Washington, en Russie, en Turquie et au Japon.

Suivez le sur Twitter : @mweill

Thomas Piketty il nuovo Marx ?






Il “nuovo Marx”, “l’icona della sinistra”: le definizioni si sprecano….


Scopriamo l’economista francese  Thomas Piketty e cosa dice il suo libro.


Quando The Economist definisce qualcuno il nuovo Marx, vuol dire che si parla di questioni serie. 
L’economista francese Thomas Piketty, 43 anni, è così diventato la nuova icona della sinistra che parla un linguaggio critico verso il capitalismo. 

Per questo è nato il paragone, piuttosto pesante, con Karl Marx.

Il libro Le Capital au XXIe siècle ha aperto un animato dibattito, iniziato in Francia nel 2013 ma che si è sviluppato dall’aprile del 2014 altrove, con la pubblicazione della traduzione in inglese.


Nella sua carriera, l’economista francese ha studiato all’École Normale Supérieure


A 22 anni ha presentato la tesi di dottorato alla London School of Economics, avendo come tema la distribuzione del reddito.

Dal 1993 al 1995 è stato assistant professor al Massachusetts Institute of Technology. Successivamente è entrato a far parte del Centre National de la Recherche Scientifique. A soli 31 anni è stato indicato come miglior economista francese.
Nei primi anni Duemila si è contraddistinto per l’impegno a sostegno dei socialisti transalpini. Ma il salto di qualità definitivo c’è stato nel 2013 con Le Capital au XXIe siècle.

Ma cosa dice questo imponente testo di Thomas Piketty?

Il saggio è diventato un best seller, grazie all’analisi storica fornita sull’andamento del reddito negli ultimi due Secoli. La visione dell’economista piace molto a sinistra, perché smonta l’apparato teorico secondo cui l’aumento della ricchezza porta benefici collettivi con la conseguente diminuzione delle disparità sociali.


Scrive Francesco Saraceno su ‘Il Mulino’: Le Capital au XXIe siècle rappresenta prima di tutto una poderosa raccolta di dati, che traccia l’evoluzione della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, principalmente in tre Paesi (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, con estensioni ad altre nazioni) su quasi tre secoli. Rompendo con le pratiche più recenti, che utilizzavano le inchieste sulle famiglie per analizzare la distribuzione del reddito, Piketty riviene alla tradizione kuznetiana di utilizzare i dati delle amministrazioni fiscali; questi sono più adatti a catturare l’evoluzione dei redditi più alti (il famoso 1%), quelli che hanno visto l’aumento più spettacolare negli scorsi decenni.

La teoria fondamentale, dunque, è che la prima parte del Novecento ha rappresentato un’eccezione nella storia e non va presa come esempio. In quel periodo, infatti, la crescita ha fatto diminuire le diseguaglianze. 

Ma nel resto della ricerca emerge una tendenza totalmente contraria, che viene acuita nelle fasi di minor crescita (come quella attuale): così la ricchezza tende ad accumularsi nelle mani di pochi.


Per risolvere questo problema, perciò, Thomas Piketty propone un intervento sulla redistribuzione del reddito, a cominciare dalla trasparenza sui mercati finanziari e l’imposizione di una tassa sul capitale.

Antonio Meucci, il genio sfortunato




La storia della tecnologia moderna si basa anche su quanto testimoniano i brevetti: da questi dipende la priorità su un’invenzione e, di conseguenza, l’eventuale ricchezza materiale dell’autore, ma anche, e soprattutto, la “fama” che di lui si tramanderà nella storia.
 

Quello di Antonio Meucci è stato il caso più famoso di brevetto contestato e solo dopo una lunghissima battaglia legale, basata sullo studio dei documenti, si è arrivati al suo riconoscimento quale vero inventore del telefono. 

Infatti, solo l’11 giugno 2002 il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto Antonio Meucci inventore del telefono facendo di lui, con oltre un secolo di ritardo, uno dei più grandi inventori della storia. Quindi, i recenti casi avvenuti in ambito informatico (Apple vs. Samsung) sono solo l’ultimo capitolo di una storia che si può far risalire a molto tempo fa.


Ma chi era Antonio Meucci?
Antonio Meucci (1808 – 1889) fu un grande appassionato di scienza e di politica
A causa delle sue idee liberali e repubblicane venne coinvolto nei moti rivoluzionari del 1831; imprigionato fu costretto a lasciare l'Italia.  
Dopo alcuni anni passati a Cuba, nel 1850 si stabilì a Staten Island, New York, dove fondò una fabbrica di candele in società con l'amico Giuseppe Garibaldi che, dal 1850 al 1853, visse in America.


Nel 1857 costruì il primo prototipo del “telettrofono” ma, a causa di difficoltà finanziare, non riuscì a registrare la sua invenzione. 
Più tardi ne ottenne un Caveat, il famoso n. 3335 del 1871, che però alla fine si rivelò essere più un danno che un vantaggio.
Cos’è un Caveat?
Il caveat, o avvertimento, nel diritto brevettuale degli Stati Uniti, corrispondeva ad una domanda di brevetto con la descrizione di una invenzione, ma senza indicazioni di dettaglio, e valeva, perciò, come la manifestazione di presentare una domanda di brevetto in una data successiva. Il caveat scadeva dopo un anno ed era rinnovabile, ma in tal caso si doveva necessariamente pagare una tassa, anche se era molto meno costosa di una domanda di brevetto e non comportava ulteriori adempimenti legali.
Nel 1876, infatti, Graham Bell (1847-1922), “ispirandosi” alle idee di Meucci e agli schemi tecnici contenuti nel caveat, brevettò il telefono moderno.

Antonio Meucci (1808-1889) è probabilmente uno degli italiani maggiormente conosciuti all’estero. 
Ovviamente questa sua fama è dovuta all’accesa rivalità con l’americano Graham Bell in merito alla paternità dell’invenzione del telefono, peraltro rivendicata anche da altri personaggi. Interessante e ben nota è la posizione ufficiale della Bell Telephone, l’azienda “di” Bell, che non ha mai ammesso alcun dubbio sulla reale priorità. Infatti si legge nell’articolo del 1933 apparso sull’organo ufficiale della Bell Telephone Company: “era la cosa più naturale del mondo che in quelle circostanze Antonio Meucci ed i suoi amici italiani, non intendendo le differenze tecniche…, ritenessero che egli fosse stato defraudato e che di questa iniquità giudiziaria fosse da biasimare la Bell”; la differenza fondamentale, secondo l’articolo era che Meucci aveva inventato il telefono acustico, mentre Bell quello elettrico, pertanto non c’era nessun fondamento per la rivendicazione.
Attorno agli anni trenta del 20 secolo, in pieno regime fascista, in Italia si fa più forte e pressante il desiderio di ottenere per la nazione un riconoscimento internazionale della propria importanza politica.


In quel particolare momento storico, infatti, diventa strategico per l’Italia rivendicare una posizione di forza all’interno del nuovo ordine che si sta costituendo a seguito delle tragiche istanze poste in essere dalla Germania nazista. L’iniziativa intrapresa dal CNR, sotto la guida di Guglielmo Marconi, per far conoscere all’opinione pubblica mondiale il fondamentale apporto dato da Meucci alla “invenzione del secolo” è ben rappresentata nei materiali del documentario sui primati italiani realizzato da Giulio Provenzal. In esso, troviamo l’ottimo lavoro di ricerca di Luigi Respighi, il massimo esperto di Meucci in quegli anni e numerosi scambi epistolari con studiosi di fama internazionale: Giorgio Diaz de Santillana, Ernst Feyerabend, che viene citato più volte, e Paul J. Collura tutti finalizzati a cercare supporto e nulla osta alla campagna di rivendicazione storico-nazionalista in questione. Tale sostegno doveva essere comprensibilmente il più “autorevole” possibile ed è per questa ragione che troviamo negli incarti la lettera, datata 1929, del più grande scienziato italiano del 20 secolo, Enrico Fermi che però, da grande scienziato qual era, ammette di non avere sufficienti dati per poter prendere una posizione definitiva in merito.
Luigi Respighi appare in questa cartella in qualità di “esperto”. E’ infatti chiamato dal CNR a valutare un’opera inedita su Meucci scritta dal giovane italo-americano
Francesco Moncada che si rivelerà estremamente preziosa nei contenuti; molti di questi, infatti, saranno fatti propri da Respighi per proseguire il suo lavoro di “riconoscimento della verità”. 
La sua analisi del testo di Moncada è puntuale, molto scrupolosa e rivela aspetti interessanti fino a quel momento sconosciuti.
Respighi pubblica articoli, saggi e libri il più importante dei quali rimane quello intitolato “Per la priorità di Antonio Meucci nell’invenzione del telefono” pubblicato in prima edizione nel 1930 per i tipi del Consiglio Nazionale delle Ricerche e che per decenni rimane il testo di riferimento su questo tema. 
Il volume è ricchissimo di dati, aneddoti e riscontri documentali. 
La ricerca svolta è straordinariamente approfondita e caratterizzata da un rigore e un “metodo” da vero cultore della materia.
Davvero interessante è scoprire quanti inventori si siano nel tempo accreditati di questa invenzione: Meucci, Bell e Gray sono solo i più noti fra essi ma la lista comprende molti altri nomi fra i quali, ad esempio, l’italiano Innocenzo Manzetti.
Alla sua uscita il volume di Respighi riscosse un grande interesse anche al di fuori del ristretto ambito degli studiosi; ne è testimonianza l’articolo divulgativo di Sebastiano Timpanaro intitolato
Illuminazioni scientifiche - Antonio Meucci e il telefononel quale viene ripercorsa per sommi capi la vicenda dello sfortunato inventore italiano ma, soprattutto, vengono riprodotti due dei disegni allegati da Meucci al Caveat, a riprova del detto “un disegno vale più di mille parole”….


Meucci, indipendentemente dalla questione legata al telefono, è stato un personaggio vivace, interessante e complesso: infatti, nella sua vita, fu autore di una trentina di brevetti, i più svariati, rivelando originalità nelle soluzioni ideate di volta in volta e una grande apertura mentale che lo orientava verso una eterogeneità di interessi , portandolo ad “invenzioni chimiche, meccaniche ed elettriche”.
Così scopriamo che Meucci inventò un condimento per la pasta che vendette poi alla nota fabbrica di prodotti alimentari STAR, elaborò la ricetta per una bevanda gassata e dolce a base di frutta e vitamine...
Più significativo fu però il procedimento di fabbricazione delle candele, lo stesso usato nella sua fabbrica di New York, in cui lavorò anche Garibaldi, che ancora oggi viene usato in tutto il mondo sfruttando, ancora una volta, una sua invenzione!